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Il peggiore nemico che puoi incontrare, sarai sempre tu per te stesso. Così diceva Nietzsche. Almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha deciso più o meno consapevolmente di rimandare, rifiutare, non fare o fare un’azione, perché avrebbe portato ad un cambiamento che ci spaventava o per cui non eravamo pronti a scendere a patti. Il cosiddetto “autosabotaggio”.

Da dove deriva questo termine? L’etimologia di questa parola è molto interessante, deriva dal francese “sabot” che significa zoccolo. Durante la Rivoluzione Francese, infatti, si è utilizzato lo zoccolo (scarpa comunemente massiccia, scomoda e di legno, per le persone indigenti) per prendere a calci i macchinari e distruggerli. Da qui scaturiscono le connotazioni negative di questa parola, indicando azioni di ribellione e disordine. 

Potremmo dire che l’autosabotaggio è l’insieme di tutti quei meccanismi e azioni che attuiamo per non raggiungere i nostri obiettivi. Questi ultimi, molto spesso, sono obiettivi importanti, che ci permetterebbero di realizzarci, coronare sogni, raggiungere scopi. Si tratta di automatismi inconsci che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo applicato: come quando, ad esempio, il giorno prima di una consegna importante, decidiamo di fare una maratona su Netflix per la nostra serie preferita o di guardare tutte le news che i social network possono offrire, invece di focalizzarci sul compito e portarlo a termine. 

Diverse sono le forme dell’autosabotaggio, e non sempre sono così esplicite. Quando si fanno entrare nella propria vita persone “malsane”, ci si sta autosabotando. Quando si spende più di ciò che si ha, ci si sta autosabotando. Quando rimandi a domani, ti stai autosabotando.

Esistono, poi, forme passive di autosabotaggio come la pigrizia, la procrastinazione, la paura e forme attive, tra cui il perfezionismo, il vittimismo, l’iper-lavoro.

Ma perché ci autosabotiamo? Per dare ragione ad alcune parti della nostra personalità. 

Il problema è che alcune parti di noi, con proprie idee e convinzioni, non hanno la minima volontà di mettersi in discussione. In un certo senso “convinte” di loro stesse, vogliono portare avanti una causa e fanno di tutto per vincerla. Se una persona è convinta inconsciamente di non essere mai all’altezza di un compito, proporrà continuamente a se stessa dei compiti irraggiungibili, così da realizzare la convinzione che si porta dentro. Da una parte quindi tenterà di dimostrare al mondo che è capace, competente, produttiva, ma all’atto pratico vivrà costantemente con ansia e fallendo una serie di obiettivi. L’autosabotaggio è, in quest’ottica, la continua conferma che ognuno dà a se stesso, di essere secondo la convinzione di una parte di sé. Convinzione non vera ma acquisita nel tempo, che non deve essere smentita.

L’evitamento, invece, è la fuga da una condizione, è una strategia comportamentale che ci permette di evitare una situazione che ci causa ansia e malessere. Soluzione più rapida e indolore per scappare dal fallimento quando si è sopraffatti dalla paura di non farcela, di non essere all’altezza o anche solo quando si vuole dimostrare che il “mai una gioia” può diventare una filosofia di vita. Capita spesso, soprattutto in ambito lavorativo, di preferire una circostanza che ci provochi malessere piuttosto che scegliere l’ignoto. Ad esempio, il capo reparto di un’azienda, sotto osservazione dalla proprietà per un’imminente promozione, decide di andare in ferie perché da tanti anni non si concede una pausa dal lavoro, guarda caso proprio nella settimana in cui avrebbe potuto incontrare il responsabile delle risorse umane.

Molte volte ci siamo sentiti dire: “Odio questa situazione ma almeno la conosco, chi mi può assicurare che il cambiamento sarà positivo?”.

Noi essere umani amiamo la nostra zona di comfort perché il sistema nervoso centrale è fatto per mantenerci in vita, non per evolvere. È come la batteria di un telefono, deve mantenersi il più a lungo possibile, non trovare strategie per crescere e migliorarsi. La necessità di controllare tutto, di valutare e prevedere ogni singola mossa, di fare liste infinite di pro e contro o di rimanere nel nostro “brodino” deriva dalla resistenza costante al cambiamento di abitudini, per cui “il male conosciuto è meglio del male sconosciuto”. Ma è proprio quando si scoprono strade nuove che l’uomo sperimenta il benessere:  il problema è che non facciamo in tempo ad abituarci a qualcosa di bello che avviene un nuovo cambiamento, magari ancora più interessante, ma comunque che ci toglie da quello a cui ci stavamo abituando. Soffrire può diventare un’abitudine. È dandoci la possibilità di scoprirci, conoscerci, imparare, che aumentiamo il piacere e quindi una nuova abitudine, quella della gioia.

La ricerca della felicità per essere stimolata, deve diventare una necessità di sopravvivenza.

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