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Quando si è egoisti? E quando altruisti? Ci sono diverse correnti di pensiero in merito. La prima ritiene che l’altruismo non esista ma sia una strategia per alleviare un bisogno personale. La seconda sostiene l’esistenza dell’amore per l’amore, che non chiede e non vuole niente indietro. In entrambi i casi è necessario spostare il focus, da se stessi all’altro, esperienza che si conosce nell’accudimento.

Quando ci si prende cura di un “altro”, si trasferisce l’attenzione dalla soddisfazione delle proprie esigenze a quella dei bisogni dell’altro. Si entra in una dimensione di ascolto che comporta attenzione selettiva, per cui le informazioni che arrivano da se stessi (dolori, gioie, bisogni) seppur presenti, restano in disparte, al buio, rispetto alle informazioni che arrivano dall’assistito. Informazioni che diventano prioritarie per chi accudisce, come prima lo erano le proprie.

Le azioni prodotte dall’accudimento comportano due tipi di piacere: 1) la riconoscenza da parte dell’assistito che riesce a superare una sua difficoltà: piacere dettato dall’empatia, dal mettersi nei panni di chi aveva un bisogno insoddisfatto che creava sofferenza, ma che finalmente viene appagato; 2) aumentano alcuni valori personali: la generosità, il senso di efficacia, il senso di utilità, rinforzando di conseguenza l’autostima.

Cosa accade nel corpo se attuiamo l’altruismo? Produciamo dopamina: un neurotrasmettitore che controlla i meccanismi di ricompensa e piacere. È infatti legato alla regolazione dell’umore e degli aspetti motori, nonché alla produzione del latte durante la fase di allattamento. Alcune delle sue funzioni riguardano aspetti come: memoria, comportamento e cognizione, attenzione, inibizione di produzione della prolactina, sonno e apprendimento. L’eccesso e la carenza di questa “chimica vitale” è la causa di parecchie malattie, o stadi di esse. Il parkinson e la tossicodipendenza sono alcuni esempi di problemi connessi con i livelli “anormali” della dopamina.

Il volontariato come occasione di piacere per sé e dell’altro. L’altruismo è il curarsi, in modo disinteressato, delle altre persone, semplicemente per il desiderio di aiutare. La vita quotidiana è piena di piccoli atti di questo tipo: dal volontariato alla donazione del sangue, al giovane che lascia il suo posto a sedere in autobus ad un anziano. Spesso siamo portati a chiederci che cosa induce le persone a donare il proprio tempo, energia e denaro per aiutare gli altri, sapendo di non ricevere nulla di tangibile in cambio.

Non è così in realtà. In alcuni casi, il volontariato rappresenta un mezzo per accrescere la propria autostima perché ci si sente utili, indispensabili, fondamentali per migliorare le condizioni di vita di un’altra persona. Batson (psicologo inglese) distingue infatti tra interesse empatico, come motivazione puramente altruistica, e il disagio personale, dove si aiuta il prossimo per ridurre il proprio “imbarazzo” di fronte alla sofferenza altrui: si tratta in questo caso di motivazione egoistica. Il volontariato quindi non è solo un modo per aiutare gli altri, ma uno strumento per appagare esigenze ed interessi personali. Può servire ad alleviare il senso di isolamento o contribuire alla soddisfazione di un certo protagonismo.

Senza dimenticare il riconoscimento sociale di cui gode il volontario. Poiché agli occhi della società il volontariato risulta positivo e benefico, queste qualità vengono “di solito” trasferite su chi effettua l’attività. Sarebbe per questo plausibile pensare che il volontariato accresca quella parte della persona narcisista, che si alimenta e trae benessere dai giudizi positivi e dagli elogi che vengono dalla società.

Storia. “Due fratelli, uno di cinque e l’altro di dieci anni, vestiti di stracci, continuavano a chiedere un po’ di cibo per le case della strada che circondava la collina. Erano affamati, ma non riuscivano ad ottenere niente, i loro tentativi frustranti li rattristavano. Finalmente, una signora diede loro una bottiglia di latte. Che festa per i due bambini! Allora si sedettero sul marciapiede, e il più piccolo disse al grande: “Tu sei il maggiore, bevi per primo…”, guardandolo coi suoi denti bianchi e la bocca mezza aperta. Il grande si portò la bottiglia alla bocca e, facendo finta di bere, strinse le labbra per non far entrare nemmeno una sola goccia di latte. Poi passò la bottiglia al fratellino che, dando un sorso, esclamò: “Com’è saporito!”. Poi fu di nuovo il turno del maggiore. Anche questa volta si portò la bottiglia alla bocca, ormai già quasi mezza vuota, ma non bevve niente. E fecero così finché il latte finì. A quel punto il fratello maggiore, benché con lo stomaco vuoto ma col cuore traboccante di gioia, cominciò a cantare e a danzare. Con la semplicità di chi non fa niente di straordinario, o ancora meglio, con la semplicità di chi è abituato a fare cose straordinarie senza dargli importanza.”

Il nostro contributo sul n°72 di Verdetà, periodico informativo di CNA Pensionati.