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Se sei un caporeparto, un responsabile o semplicemente un dipendente, ti è capitato di assistere (e magari dover intervenire) ad un errore, o essere tu stesso a compierlo. Ma è possibile evitare questo tipo di episodi?

Solo chi non agisce non sbaglia. È l’immobilità che preserva apparentemente l’essere umano dal giudizio esterno e da quello che “gli altri” chiamano errore. Simpatica la definizione di Treccani sulla parola stessa, la fa derivare dal verbo errare che vuol dire vagare, vagabondare, muoversi senza meta. Come a dire che l’errore è l’azione senza obiettivo, fine a se stessa. In un certo senso potremmo azzardare che quando si compie un’azione senza le idee chiare, si sbaglia. Forse questa è esperienza comune anche in azienda: il fare, tanto per fare, genera errore.

Come affrontare l’errore? Generalmente si vive come fallimento, eppure il bambino che impara a camminare ha chiaro l’obiettivo, ma spesso cade perché non ha abbastanza forza nelle gambe, o posiziona in modo scorretto la pianta del piede. Ogni caduta però, è una gran frustrazione e soddisfazione allo stesso tempo, perché dall’errore può aggiustare il tiro, cambiare le posizioni, sperimentare, rinforzando l’autostima nella crescita e nelle proprie capacità: ”ce la posso fare, mi sto avvicinando all’obiettivo”. L’errore fa parte della vita, sebbene da adulti si tenda a negarlo. Sbagli, imperfezioni, vulnerabilità: ecco perché occorre cambiare l’approccio verso i passi falsi, momenti cruciali e formativi nelle organizzazioni e nella vita. Molti li temono, tendono a nasconderli e ad imputarli a fattori estranei, coltivando una insana cultura dell’alibi. Gli errori sono inevitabili e forse sarebbe meglio allenarsi a convivere con le conseguenze.

La rigidità dei giudizi. Più si ha un’idea di se stessi immutabile, più è difficile ammettere di aver sbagliato, più l’errore non serve, innescando un vorticoso meccanismo di coazione a riprodurlo, in assenza del suo riconoscimento. Perché non si riconoscono gli errori? Per il timore del giudizio. Si cresce con il concetto dualistico di giusto e sbagliato, bravo e cattivo. È normale che poi l’uomo tema l’errore. Chi sbaglia è colpevole e paga le conseguenze. Insomma, un cane che si morde la coda in un crescendo spesso di devastanti conseguenze. Jack Welch, storico CEO della General Electric e universalmente riconosciuto come manager dotato di grande leadership, intervistato su come avesse raggiunto il successo, disse: «Prendendo buone decisioni». Alla replica su come avesse imparato a prendere buone decisioni, rispose consapevole di dire un’ovvietà: «prendendone di sbagliate». Lapalissiana ammissione di quanto le capacità che si danno per possedute in forza di chissà quali alchimie, altro non sono che inevitabile frutto di errori del passato. La strada verso la grandezza sta nel loro percorso di elaborazione.

L’errore che si ripete, dalla cultura della colpa a quella della prevenzione. Quando l’errore si ripete vuol dire che non si è cercato in modo corretto la causa. Una volta individuato l’errore, ad esempio una difettosità in un macchinario, non basta la rimozione del macchinario stesso ma è fondamentale capire da dove è scaturito il problema: usura? Perché nessuno se n’è accorto prima? L’errore si ripete solo ed esclusivamente se è un errore culturale, organizzativo. Nel contesto aziendale, quando gli errori che si ripetono sono sempre gli stessi, si ha l’evidenza di un problema nel modo di approcciare a quell’errore, che normalmente è causato da una mancata prevenzione, causata a sua volta da superficialità e poca professionalità nel modo di pensare. Capita spesso che il responsabile cerchi il colpevole e non la causa generativa dell’errore, approccio che porta inevitabilmente alla ripetizione dello stesso. Viene a mancare cioè il concetto elastico di miglioramento continuo, che nasce solo se vi è qualcosa da migliorare.

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