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Da decenni ormai la comunità medica ha accertato una verità per niente intuitiva: avere contatti quotidiani con altre persone non favorisce soltanto il benessere psicologico, ma ha anche degli effetti reali, concreti sulla nostra salute fisica. Le ricerche dimostrano, ad esempio, come le persone colpite da tumore che godono del conforto di parenti e amici o che partecipano a gruppi di sostegno, hanno reazioni immunitarie più efficaci e vivono più a lungo rispetto ai pazienti privi di tali aiuti. I benefici dell’interazione sociale sembrano dovuti alla soddisfazione di un nostro bisogno fondamentale, che è quello di appartenenza, di affetto e, in maniera più profonda, il bisogno di esistere per l’altro.

Il paradosso della vicinanza. Che fare, tuttavia, quando una malattia contagiosa quale è il nuovo coronavirus rischia di trasformare la socialità in una componente dannosa? Evitare ogni possibile contatto si è rivelato l’unico farmaco a noi noto per prevenire il contagio e salvaguardare anzitutto i soggetti più a rischio, come le persone anziane o immunodepresse.

Eppure il bisogno di socialità, così connaturato in noi, non si è placato ed è forse stato questo il motivo principale che ha reso così difficile rispettare l’imperativo di «restare a casa». Di fatto, le misure per contrastare il virus ci hanno posto di fronte ad un paradosso: le persone a noi care, per starci (metaforicamente) vicine, hanno dovuto starci (letteralmente) lontane. Se abbiamo compreso e sopportato questo paradosso è perché siamo riusciti ad andare, in qualche modo, contro la nostra stessa natura, che ci induce a sentire l’affetto e il sostegno dell’altro solo quando c’è prossimità fisica.

Abbiamo in altre parole dovuto imparare a percepire l’intimità indipendentemente dall’interazione. È stata l’ennesima battaglia dell’inconscio contro la consapevolezza: il primo che ci implorava di soddisfare il nostro bisogno di appartenenza e affetto e, l’altra – sostenuta dagli appelli dei medici e delle istituzioni – che ci suggeriva di evitare i contatti. Alla fine, chi è riuscito ad affrontare con sufficiente serenità questo conflitto lo ha fatto perché è stato in grado di distinguere il momento dell’interazione dal suo significato fondamentale, ovvero dimostrarsi reciprocamente affetto: l’interazione non è infatti fine a se stessa, ma serve a dire “tu per me esisti e hai valore nella mia vita, per questo ti dedico le mie attenzioni”. Divenuta nociva l’interazione, questo medesimo messaggio ha dovuto trovare espressione in maniera diametralmente opposta, mediante l’assenza di interazione: ti sto lontano perché (ti voglio comunicare che) ti voglio bene.

L’imporsi della diffidenza. Questo cambio di prospettiva, nel concreto, ci ha obbligato all’isolamento in casa, ma non solo. Ha infatti anche modificato il nostro modo di interagire con le persone con le quali era inevitabile venire in contatto. È cambiata anzitutto la prossemica, che l’antropologo Edward T. Hall ci ha insegnato essere un vero e proprio linguaggio: quanto più vicini ci posizioniamo alla persona con la quale interagiamo, tanto più le stiamo comunicando di sentirci intimamente legati a lei. Con la norma che ci ha imposto di stare ad un metro gli uni dagli altri, abbiamo dovuto mantenerci alla distanza che di solito si adotta con i conoscenti. Di colpo sono diventati tutti conoscenti ed è sparita la zona d’interazione amicale e intima. Ancor peggio, ad essere cambiata è la fiducia che in condizioni normali riponiamo nel prossimo. L’esigenza di proteggerci ci ha indotto, consapevolmente o meno, a diffidare delle persone che incontravamo e ad esaminare con sospetto ogni piccolo segnale che potesse essere ricondotto all’influenza. “Hai sintomi?” ha sostituito il canonico “Come stai?”. Sapere se davanti a noi ci fosse un corpo sano oppure malato era diventato più importante che sapere con quale persona ci stessimo relazionando.

Fidarsi è bene. Verosimilmente, anche se ora l’emergenza si sta (forse) ridimensionando, non assisteremo ad un cambio immediato nelle relazioni. Per un po’ continueremo a chiederci se il pericolo sia passato e se le persone intorno a noi siano state responsabili e attente al rispetto delle norme. Da tutto questo, però, possiamo anche imparare qualcosa sul ruolo che ha la fiducia per il nostro benessere psichico. Fidarsi – soprattutto fidarsi degli altri – ci permette di svolgere molte delle nostre azioni e relazioni quotidiane con un senso di piena sicurezza, senza cioè dover occupare la nostra mente col pensiero che tali azioni o relazioni possano essere dannose. Solo facendo affidamento su questo tipo di certezze noi possiamo permetterci di non stare sempre all’erta e di investire le nostre energie psichiche in altri compiti, più gratificanti. In questo modo, ricostruendo la fiducia, potremo tornare ad avvicinarci – letteralmente e metaforicamente – agli altri e godere nuovamente dei benefici che l’interazione sociale ha sulla nostra salute fisica.