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Omertà: etimologia, origine della parola e processo psicologico che sottostanno a un meccanismo ancora poco noto.

30 anni di latitanza grazie all’omertà della gente?

Dopo la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro a Palermo, a pochi chilometri dal cuore della zona in cui è cresciuto e ha sempre gestito i suoi affari, opinione pubblica e media si sono concentrati su una domanda: come è possibile che nessuno sapesse?

Le televisioni girovagano da giorni tra i vicoletti di Castelvetrano, che si intersecano fitti e come una rete di protezione hanno “salvaguardato” le identità fittizie che l’ultimo boss di Cosa Nostra avrebbe utilizzato in tutti questi 30 anni di latitanza, bussando ad ogni porta, suonando ad ogni cancello e interrogando gli abitanti nei minimarket, fruttivendoli o bar ma la risposta è sempre la stessa: no, non lo conoscevano o non l’avevano riconosciuto, era una persona gentile e cordiale con tutti e nessuno poteva immaginare che dietro quella figura si nascondesse un criminale tanto efferato.

Non entriamo nel giudizio del fatto se la gente sapesse o no. In questa sede, quello che ci interessa è cogliere l’occasione per comprendere meglio il meccanismo e l’origine del processo psicologico dell’omertà.

Che cos’è l’omertà: l’origine della parola

L’etimologia della parola “omertà”, viene fornita per la prima volta negli anni ‘80 dell’ottocento dall’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè e poggia le basi proprio nel campo semantico della mafia. Il termine, infatti, deriverebbe dalla radice omu (uomo), da cui l’astratto omineita-mortà rifletterebbe una concezione esasperata della virilità, per la quale ognuno è costretto a vendicare le offese da sé, senza mai far ricorso, pena il disonore, alla forza pubblica.

L’omertà: un meccanismo psicologico

Che cos’è l’omertà dal punto di vista psicologico? L’omertà è un meccanismo di difesa di evitamento, preconscio-conscio che ha l’obiettivo di preservare, come tutti i meccanismi di difesa, l’IO da una tensione eccessiva. Il concetto descritto da Pitrè ci mette di fronte ad una diagnosi vera e propria, che dipinge i contorni della paranoia, appunto l’ipertrofia dell’io, che sfocia in megalomania. 

Nell’omertoso c’è un conflitto interiore, di fronte ad una figura di riferimento rappresentante il padre, un padre distante e onnipotente, che non si discute ma si accetta. Il conflitto è tra l’essere testimone diretto o indiretto di comportamenti giudicati negativamente dalla collettività che contrastano col significato che ha il padre onnipotente che può tutto e non sbaglia o se lo fa è perché c’è un fine non comprensibile al soggetto. 

L’omertoso si sente in una condizione di impotenza appresa in cui non può né scavalcare né confrontarsi con il padre, pena il giudizio negativo, la punizione, l’esclusione dal gruppo. Unica soluzione? Il silenzio.

Ma l’omertà, si badi bene, è legata non solo a questioni che riguardano la criminalità organizzata, ma a qualsiasi situazione in cui sappiamo qualcosa che non denunciamo. L’omertá è consapevole, ma ci si giustifica trovando motivazioni valide per negare e non denunciare il comportamento osservato.

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